La nostra storia

Siamo nel lontano 1915 e…

Siamo nel lontano 1915 e, proprio dove ora è situata la “saletta” del Ristorante Nadain, un tempo risiedeva una sorta di casa di contadini, con il porticato ed il camino in una grande cucina. Questa casa costituiva un punto di riferimento per coloro che passavano con i cavalli e i carri in direzione della città (Mestre): allora era d’usanza sostare in questo postiglione per abbeverare i cavalli e per bere del buon vino rosso. Fu così che la proprietaria della casa , una signora molto prosperosa, con i capelli scuri e con, addirittura, i baffi decise di creare una “bettola”, dove servire tanto vino ai passanti. Si racconta, però, che questa “donnaccia”, oltre a servire il vino si rendesse molto disponibile a delle vigorose prestazioni sessuali con chiunque si fermasse da lei. Nel giro di pochi mesi, con il passaparola della gente, si scatenò un via vai di uomini, i quali diedero alla donna il soprannome di “figa de fero”, dato che riusciva ad avere molteplici rapporti sessuali ogni giorno senza avere nessun tipo di problema fisico. Nel 1920 circa, però, questa casa fu acquistata da Luigia Deluigi e Edoardo Pieretti, una coppia di giovani sposi con prole al seguito che, per avere la propria indipendenza dai genitori, decisero di trasferirsi da villa Moncenigo alla casa di via Ghebba. Una volta trasferitisi, ebbero altri figli e decisero di trasformare la bettola della “figa de fero” in un’osteria vera e propria dove si serviva, oltre al vino, anche grappa e brulè . In questa osteria si potevano anche acquistare dei prodotti di prima necessità, dal sale, allo zucchero, alle uova.

Edoardo diede il compito della gestione dell’osteria alla moglie Luigia mentre lui, con le sue mani, cominciò a sistemare la casa, rendendola più agibile, di bell’aspetto e servizievole per i clienti. 

Egli, inoltre, costruì nel retro un campo da bocce, dove i clienti dell’ostria potevano svagarsi, oltre che ubriacarsi. Luigia ogni tanto serviva ai suoi clienti anche delle pietanze. Un giorno un ufficiale del forte Tron (situato nelle vicinanze) chiese a quest’ultima se avrebbe potuto prepare i pasti per gli ufficiali del forte, in modo tale da paterli consumare direttamente all’interno dello stesso. Così, Luigia, quando preparava i pasti, mandava il marito ed il figlio ANTONIO (Toni Pieretti) a consegnali. Cominciarono successivamente anche i primi pranzi all’interno dell’osteria da parte gruppi di giovani lavoratori di Chirignago, che la domenica si recavano in quel posto dove continuava la tradizione del nome “figa de fero’ ma che, ormai, da bettola era diventata una funzionale Osteria. QUESTA GESTIONE proseguì FINO AL 1960, QUANDO VOLPATO NATALINO (detto in dialetto veneto NADAIN) acquistò l’osteria e si trasferì da Calcroci (Camponogara) in via fossa del palo, ad Oriago, in via ghebba proprio dove ora c’è ancora il ristornate Nadain.

LA “ FIGA DE FERO”

“Tratto dal libro : UN MAESTRO ( la vita del maestro Antonio Pieretti ) Elsa Marchiori.”

Luigia e Edoardo Pieretti non restano per molto tempo in famiglia, nella villa Moncenigo, lunga grande e bianca. Eppure si usa formare una famiglia particolare. O matriarcale? Si, perche in verità sono spesso le donne ad avere in mano la conduzione economica e famigliare.
In villa Moncenigo sono già venuti alla luce i primi tre figli. Con la motivazione di un crollo finanziario in atto, i due sposi decidono di avere la propria indipendenza. A cominciare dalla casa. Così acquistano una abitazione solo per loro, una specie di casa di contadini, con il porticato e il camino grande in una grande cucina. La casa è in via Ghebba, proprio lungo il canale Lusore, che ricorda l’altra acqua del Brenta, che lasciano assieme alla loro casa natia. Lasciano quell’acqua insieme all’infanzia e alla giovinezza, insieme ai primi rossori e ai primi baci, per intraprendere la loro vita nuova. Questa casa ha un nome, un nome particolare, difficile da dimenticare. Tutti la conoscono come la “FIGA DE FERO”. Prima dell’arrivo dei due giovani, quell’osteria è gestita da un’altra coppia e la donna è grossa, molto grossa, ha i capelli scuri e ha…..i baffi. Così raccontano. Non si depila la donna, i peli scuri si vedono benissimo sotto il suo naso. “Donna baffuta , donna piaciuta”….dice il proverbio. I proverbi nascono per consolare. Certo deve piacere molto la donna! Piace cosi tanto che diventa famosa anche fuori dal paese per la sua attività.

LA GENTE DA INFATTI QUESTO NOME ALL’OSTERIA.

Si, perché la “Figa de Fero” è un osteria, dove si servono vino e grappa. È un posto strategivo perche proprio li vicino c’è la fornace SCHIAVON dove lavorano tanti fornasieri, donne e uomini e ragazzi, che per tirarsi su dalla dura fatica, vengno a vere il vino e l’acquavite. Questo consente loro di vivere con una certa contentezza, pur affrontando un duro lavoro. Non ci sono come ora i bar, le pizzerie e ristoranti, le gelaterie a Oriago. Ci sono le osterie. Sono posizionate in punti favorevoli al ristoro, vicino a un ponte, a metà di una via frequentata, in Piazza Mercato, ad un incrocio. Molte volte le donne mandano i figli piccoli o vanno loro stessa a recuperare il capo famiglia perché l’ora è tarda e perche non sa tornare con le due gambe. Anche la “FIGA DE FERO” è in un luogo particolare. Di là della strada stretta verso Ovest, c’è tutto il terreno della fornace, dove vengono posizionati tanti mezzarini, dei sistemi di legno coperti in caso di pioggia, per far asciugare al sole i mattoni. Non campi di grano, di frutteti o altro, ma campi di terra, buche scavate, terra su terra. Case quasi niente. Solo l’osteria si nota e, sparse più in là, spuntano la casa dei Bergamo e quelle rurali di poche altre famiglie, dalle quali si può comperare il latte appena munto, bianco e schiumoso come neve apena posata sulla terra stanca.

Non esistono negozi, tantomeno supermercati. Ciò che serve è tutto in casa. Dai contadini si può trovare quello che non si ha. Si compra solo il poco sale, il poco zucchero, il poco olio di cui si ha superflua necessitò e ogni elemento è contenuto in una carta di colore diverso, come un tesoro da riconoscere con gl’occhi più che con il naso. È carta spessa, gialla per il sale, azzurra per lo zucchero…perderne nemmeno una gocciolina. Qui, in via GHEBBA, non si vedono più le distese di lenzuola e tovaglie, ma le mature distese di campi di terra, coperti dai laterizi costruiti con altra terra, la creta estratta dalle cave. In via GHEBBA gl’occhi si perdono in distese di terra creta, di argilla, con il suo tipico odore che imprigiona l’acqua e poi lascia spargersi all’aria col sole. C’è una lapide a ORIAGO, affissa al Palazzo Moro, di che porta lo scritto di DANTE ALEGHIERI sul luogo paludoso, quindi ricco di creta. Parla di Jacopo del Cassero che fugge dai suoi inseguitori, ma resta impigliato tra le canne i il fango a “ORIACO”, dove muore. Oriago ricco di terra argilla. Da quando è apparso sulla terra l’uomo ha modellato la creta, l’argilla tenera che permette di costruire, di godere dell’oggetto nato dalle proprie mani, imitando le forme suggerite dalla natura.

Lo sanno ancora fare tutti i bambini sulla spiaggia! Amano toccare, impastare, sentire tra le mani la plasticità di questi elementi naturali e primordiali, con un sapore primitivo che fa sognare. La creta possiede un impulso vitale straordinario, è l’energia della madre terra. Una leggenda pellerossa dice che tre sagome di creta vengono plasmate e poi cucinate nel forno. La prima uscita non è cotta abbastanza, è pallida, è l’uomo bianco. La seconda estratta è cotta troppo, è scura, è l’uomo nero. La terza finalmente è cotta correttamente, è rossa, è l’uomo pellerossa. Veniamo dalla terra e torniamo alla terra, dice qualcuno. Sentiamo questo fascino, questo richiamo. Nel territorio sorgono molte fornaci, come testimoniano i camini che svettano ancora oggi verso il celo. Come la lavanderia, anche la fabbrica di laterizi è un’industria, rappresenta una risorsa preziosa di lavoro nel paese. Certamente è un lavoro duro, sempre uguale, sempre a contatto con la dura terra molle.

Qualche fetta di salame col pane e col vino diventa alimento e elemento della festa condivisa per i lavoratori stanchi. Un passatempo, un diversivo per gli operai è quello di andare, la sera, alla “FIGA DE FERO” a giocare a carte, a fare partite di tresette. E intanto bevono. Bevono per spegnere la sete di riposo e alla sete di ritorno alla condizione di uomini. Bevono e poi cantano. Cantano e la spossatezza li abbandona per lasciare posto all’allegria dello stare insieme. In questo modo passano i giorni e gl’anni, si possono scorrere come i grani del rosario.Il 18 Luglio 1930 da Luigia e da Edoardo nasco io, ANTONIO. Sono l’ultimo di sette figli: Sandra, Onidia, Giovanni detto Mario, Idelma, Vanda e EDDA. Io sono Antonio, da subito chiamato TONI. Viviamo con i genitori alla “FIGA DE FERO” e, fin da piccoli tutti noi impariamo a servire i bottiglioni di vino ai fornasieri. Un bottiglione, contiene due litri di vino, è messo el centro del tavolo e pi i clienti si riempiono i bicchieri, uno dopo l’altro. Loro sono gentili con noi bambini e si dimostrano sempre molto affettuosi, ci sorridono. Noi mangiamo nella stessa cucina dove c’è il bancone dell’osteria, dove si appoggiano spesso gli operai stanchi.

Con un gomito si tengono su e con l’altro alzano il bicchiere, ristoro alla giornata conclusa. Siamo nel periodo fascista. Alle spalle del balcone, sul muro è appesa la grande foto di Mussolini, il Duce. A lato della cucina c’è una sala molto ampia con il pavimento in legno grezzo, il soffitto ha i travi a vista, che oggi sono tornati di moda. E’ in quella sala che si ritrovano i paesani a giocare a carte e per bere il vino rosso, esclusivamente rosso come il sangue che dona energia a ogni cellula del corpo. Verso Est ci sono le camere, due camere, una per in nostri genitori e una per tutti noi, sette fratelli. Fuori c’è un orinatoio per i clienti e c’è un gabinetto per noi, vicino al letamaio. Teniamo il letamaio per i pochi rifiuti. Sono davvero pochi i nostri rifiuti, come i rifiuti di tutti, che servono anche a coltivare l’orto. Sopra la casa, bassa e a un piano, c’è un grande granaio, dove noi bambini conserviamo i resti di biscotti, e di coni gelato e briciole di caramelle, che ci porta Populin, il santolo di nostra sorella Idelma. È un rappresentante di biscotti e caramelle, che arriva da noi col calesse trainato dal cavallo. Lui abita a Mestre e ci porta tutti gli scarti perche possiamo darli ai nostri maiali. Ma noi non li diamo ai maiali, sono troppo preziosi. Noi ce li teniamo. E ce li mangiamo di nascosto. Non godiamo da soli di tutto questo ben di Dio, ma invitiamo a fare festa con noi altri bambini, i nostri amici e i nostri compagni di scuola.

Il granaio diventa il nostro ritrovo, un luogo di incontro e di gioia. E impariamo fin da piccoli a condividere…. Questa caratteristica del nostro agire ci rimane sempre per sempre. Mio papà allevava un maiale ogni anno, finche un anno lo portarono via e allora, sfiduciato , non ne tiene più. I ladri vengono nove volte in questa abitazione, in questa miseria, non per portare via cose di valore, ma scorte familiari e alimentari, salame, pane, anche solo sale. Al banco dell’osteria vendiamo anche sale e tabacchi, tutto per arrotondare l’incasso. A undici anni, mia sorella Onidia va ospite dallo zio Donà, che ha sposato la sorella della mamma, Caterina. Sono senza figli e crescono loro la nipote, per alleggerire la nostra famiglia in difficoltà e perché mia sorella ha tanta paura dei ladri che sovente visitano la nostra modestissima osteria. Ho tanti bei ricordi della mia infanzia, soprattutto ricordo i giochi. Mi piace il gioco de “i morti”. I morti sono pietre. Un mentre stiamo giocando, mi arriva una pietra su un occhio. Ho paura più di essere rimproverato dalla mamma che non di perdere l’occhio. Un altro gioco divertente è quello dei “schei”. C’è una moneta a terra e con un sasso bisogna essere capaci di rovesciarla, vince chi riesce a farlo. Con i miei genitori e con i miei fratelli vivo un rapporto affettuoso. Sono il più piccolo di tutti e sono più coccolato da tutti. Sono l’ultimo e tutti hanno occhi solo per me. Conservo un buon ricordo di mio papà. È un grande lavoratore, parla poco, osserva molto, ascolta tanto e sa farsi ascoltare senza alzare la voce.

La mia mamma ha un duplice ruolo, deve dividersi tra impegni famigliari e impegni di lavoro. È lei che tiene in mano la gestione del lavoro, è lei che sa organizzare tutto. Ha un carattere più deciso e mio papà dedica tutto a lei, anche il fatto di rimproverarci. Per questo nostro padre appare sempre in positivo e noi nutriamo una specie di venerazione. Diventa per noi un mito per la sua calma e per la tranquillità che ci trasmette. Ricordo che mio papà sale sul carro, tirato dal cavallo, e va a prendere il vino a Fusina, dove si estende un grande vigneto. Tutte vigne ben allineate che somigliano a un ricamo sulla terra, con i colori sfumati dei vari verdi delle foglie promettenti prima e poi dei grappoli viola maturi. Da qualsiasi punto di vista le piante appaiono ordinate, in riga dritta, come i bambini prima di entrare a scuola. E mentre le foglie ingialliscono sale il profumo che fa pensare già al mosto. Ne esce un vino dal gusto particolare perche la terra, ricca della salsedine della laguna, nutre le piante con sostanze speciali. C’è una sorte di grande cantina proprio di fronte alla stazione del tram di Fusina. È l’unico istante di movimento umano che vede salire e scendere le persone che vanno e vengono da Venezia per via acqua. Il proprietario della cantina ci vende il vino per la nostra osteria. Altro vino viene recapitato da noi da altri rifornitori. Il nome Fusina deriva dalla fucina, la macchina, fatta girare da due cavalli per permettere alle imbarcazioni di superare il dislivello dell’ingresso in acqua della terraferma e viceversa. L’incisore Gianfrancesco Costa, nelle sue stampe del XVIII secolo, evidenzia la sensazione di pace e di dolcezza che offrono le piante dietro la Fucina.

“Tratto dal libro : UN MAESTRO ( la vita del maestro Antonio Pieretti ) Elsa Marchiori.”